Un intervento di Sergio Scalpelli su "Linkiesta" apre la riflessione sulla ristrutturazione all'interno della sinistra. Oltre i 5stelle come costruire alleanze durature?

Un intervento di Sergio Scalpelli su "Linkiesta" apre la riflessione sulla ristrutturazione all'interno della sinistra. Oltre i 5stelle come costruire alleanze durature?

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Sondaggi di ferragosto e strategie politiche-elettorali.

Un intervento di Sergio Scalpelli su "Linkiesta" apre la riflessione sulla ristrutturazione all'interno della sinistra. Oltre i 5stelle come costruire alleanze durature?

Sergio Scalpelli Linkiesta

Editoriale

di Sergio Scalpelli

11 Agosto 2021

Milan l'è un gran antipopulista

Ragioni riformiste e liberali per eleggere Sala senza i Cinquestelle

Per il sindaco uscente si intravede la possibilità di vincere al primo turno. Sarebbe un’ottima cosa, ma perché questo succeda servirebbe il contributo dei Cinquestelle, ossia della forza politica più lontana dalla tradizione ambrosiana e dall’idea di futuro della metropoli. Non ne vale la pena.

Circola a Milano, una supposizione: che il Centrosinistra, contro ogni previsione di solo qualche settimana fa, possa vincere le elezioni al primo turno. Mancherebbero giusto quei cinque, sei punti che i sondaggi accreditano essere grosso modo la percentuale di voti attribuibile al Movimento 5stelle.

Ora, io mi auguro di cuore che Beppe Sala possa vincere le elezioni subito, soprattutto perché alla ripresa, nel primo autunno, una situazione sociale complicata e rinnovati rischi epidemiologici, richiederanno da subito una guida solida e credibile della città, cosa che al momento non sembrerebbe essere nelle corde della coalizione di destra. 

Bene. Guardiamo dunque le forze in campo. Milano ha conosciuto una lunga stagione nella quale le forze di centrodestra sono state in grande sintonia con gli umori e le domande di grande parte dell’opinione pubblica. Dal 1995 a grosso modo il 2010, intorno a Forza Italia e alle alleanze che Berlusconi definiva, si è costruito un consenso che ha coinvolto pezzi di elettorato laico e cattolico di tradizione moderata, quello, per intenderci, che si era ritrovato fino a tutti gli anni ’80 del secolo scorso, nella cosiddetta area laico-socialista e nel cattolicesimo liberale e popolare proprio di un pezzo importante della chiesa ambrosiana.

Nel 2011 c’è stata la svolta determinata dal combinato disposto della crisi della leadership di Berlusconi e dal colpo di genio di chi ha immaginato che candidare un grande professionista con una lunga militanza a sinistra, ma anche col profilo di un garantista di ferro, Giuliano Pisapia, potesse consentire di allargare il campo del centrosinistra e vincere. Così è stato, e così è oggi.

Perché Pisapia e Sala sono definibili con una parola tanto semplice quanto chiara: Riformisti.

Sempre, nella pragmatica, concretissima e, come diceva Alberto Savinio, «infanatica» Milano, la competizione politica si è svolta nella dialettica tra forze che guardavano alla crescita della città, a un equilibrio solido tra sicurezza e inclusione, tra pubblico e privato, nelle scelte urbanistiche, come pure nell’articolazione del welfare locale.

Tutto ciò ha fatto sì che in nessuno dei momenti drammatici della sua ancora recente storia, dalla strategia della tensione, al terrorismo, fino all’enorme transizione da città industriale, cuore pulsante del conflitto di classe, alla città terziaria si siano manifestati conflitti e drammi sociali devastanti.

Anche il risveglio dopo la pandemia può essere accompagnato da un buon governo, in grado di orientare i denari che arriveranno e gli importanti investimenti progettati da grandi gruppi privati, secondo una logica che contemperi, insieme e nello stesso momento, innovazione ecologica, innovazione digitale e innovazione sociale, detto in soldoni: riprendere a correre senza lasciare indietro nessuno.

I brevi cenni sulle vicende milanesi che ho segnalato ci dicono che l’insieme dell’azione di governo delle giunte di centrosinistra ha avuto un baricentro culturale piuttosto nitido e mi chiedo che cosa c’entra tutto ciò con i cascami di una stagione, quella grillina, che peraltro a Milano non ha mai attecchito?

Alla fine i Cinquestelle sono quelli che dal vaffa al partito di Bibbiano, dalla riforma Bonafede, al reddito di cittadinanza che sta per essere del tutto cambiato, per non parlare del NoExpo, no stadio, hanno segnato, in Italia, non a Milano per fortuna, una stagione pessima di tempo buttato e idiozia diffusa.

Oggi, esangui, hanno un ceto politico «capace di tutto ma buono a nulla» (cit. Longanesi) che, in effetti, ha in Luigi Di Maio l’esponente più “duttile” e francamente molto più sveglio di Giuseppe Conte, ma si fa fatica a comprendere perché la coalizione di Sala, già molto ampia e articolata, dovrebbe stabilire una sorta di patto politico e di governo con gente che su quasi tutte le questioni dirimenti per il buongoverno di Milano pensa il contrario di ciò che ha pensato, progettato e realizzato, ad esempio, l’ottimo assessore Pierfrancesco Maran.

Allearsi prima del primo turno significa stipulare un patto politico, dare un segno identitario alla coalizione, mettersi, in questo caso, in controtendenza con gli umori della stragrande maggioranza dei cittadini milanesi. Qualcuno ha scritto che sull’accordo coi Cinquestelle «sarebbe caduto il veto dei Riformisti». I Riformisti non mettono veti, ma ragionano e invitano a considerare che un errore politico dettato da ansie o frenesie o impulsività ed eccesso di sicurezza può far si che ciò che si fa per conquistare qualcosina si riveli effimero. E alla fine si resti senz’anima. I milanesi non gradirebbero.

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