Chiudere in tempo brevissimo il buco provocato dal lock down è condizione necessaria per agire in una situazione che già oggi è di recessione, la quale purtroppo rischia ormai di sfociare in una lunga depressione.
Condividiamo l’analisi di Mario Draghi.
Il mondo di solo due mesi fa semplicemente non esiste più: la contrazione del Pil mondiale, il rischio di cancellazione di interi settori portanti (si pensi al turismo, al trasporto aereo, alla stessa automotive), l’impossibilità di mantenere una economia basata sulle esportazioni, prefigurano uno scenario di guerra ancora in corso, durante la quale non è certo il controllo del debito pubblico a dover orientare le scelte di governo.
Occorre il coraggio e l’ambizione di passare rapidamente, dopo le fasi fin qui sperimentate, ad una nuova fase di intervento, avendo ben chiaro che occorrerà cambiare completamente modello di sviluppo e di società, mantenendo la coesione sociale, la quale sarà a grave rischio se non saranno adottate con immediatezza le misure di mitigazione degli effetti del lock down.
E la soluzione - lo diciamo con molta chiarezza - non sarà certo trovata negli annunci televisivi (come quello fatto a fine giornata di ieri, sabato 28 marzo) in cui si promettono anticipazioni contabili di partite di giro, come il fondo di solidarietà dei Comuni, né nelle polemiche ad uso del proprio pubblico contro i paesi del Nord e la Germania, fermi nella loro illusione di cavarsela da soli, contrapponendo loro una velleitaria ed irrealistica volontà autarchica del Governo italiano.
Va infatti ribadito, con altrettanta chiarezza e lucidità, che la dimensione minima e unica per sviluppare con possibilità di successo questa strategia è quella dell’Europa: l’alternativa ad un disegno europeo politico, culturale ed economico comune non c'è; né può essere la ricaduta in impossibili sogni tardo nazionalisti, oppure autoritari tipo Ungheria, i quali più presto che tardi diventeranno purtroppo preda di pericolose fascinazioni per sistemi non democratici.
Il tempo per agire è ora.
È necessario, da subito, definire perciò in dettaglio gli obiettivi concreti, i percorsi e gli strumenti operativi più efficaci da attivare per garantirsi il successo.
Abbiamo ritenuto opportuno affrontare questo esercizio producendo un documento, condiviso e sottoscritto dalle principali associazioni civiche regionali oggi esistenti. Documento con cui cerchiamo di entrare più in dettaglio sulle cose da fare e che potete, qui di seguito consultare, vagliare e farne oggetto delle vostre eventuali ulteriori considerazioni. Raccolte le quali alla fine del confronto ancora aperto, pensiamo di trasformare questo documento in una piattaforma politica e programmatica sulla cui base contribuire nei prossimi mesi alla ricostruzione del nostro Paese e di una Nuova Europa.
La nostra visione acquista oggi la sua nitidezza attorno a due parole: DOPO-CORONAVIRUS e GLOCALISMO.
Un doppio focus: il primo sulla attualità, la "cronaca" nella quale siamo improvvisamente precipitati a causa di una pandemia improvvisa, imprevista (ma non imprevedibile!); il secondo focus è sulla "storia", una prospettiva "lunga" che rilegge il nostro passato istituzionale e lo proietta nel nuovo mondo possibile.
Il Dopo-Coronavirus e noi
di Franco D'Alfonso
Nel giorno più buio per Bergamo, aperto dalla drammatica fotografia del convoglio militare con le bare, dell'ospedale da campo degli alpini, prima autorizzato e poi sospeso e poi realizzato in tre giorni, con la generosità del personale medico e sanitario, e degli Alpini; nei giorni delle conferenze-stampa in Regione Lombardia con i medici di Wuhan, dei medici Cubani a Malpensa, dell'arrivo dei aerei russi in aiuto con il materiale sanitario; nei giorni della chiusura totale (o quasi) delle attività; del passaggio dalle centinaia alle migliaia di morti; della chiusura dello Spazio Schengen e delle frontiere; della proclamazione della pandemia con l'emergenza in Spagna, Germania, Francia, Uk, Usa e resto del mondo, tutti nell'emergenza come noi; in questa inedita catastrofe economica planetaria, in un giorno così, bisogna trovare la forza di guardare avanti e cominciare a pensare anche alla ricostruzione.
Innanzi tutto, via via che si riesce a sollevare lo sguardo dalla confusione drammatica quotidiana, una cosa appare in tutta la sua chiarezza: nulla sarà come prima.
Niente sarà come prima vale per tutto: a partire dalla politica, dalla sanità, dal welfare.
Anzi, se vogliamo essere più precisi, è sbagliato anche il termine "sarà"; difatti è già successo: nulla è più come prima!
Dobbiamo cambiare approccio su tutto. A conferma ci aiuta anche un po’ di storia sulle epidemie.
Il Comune, istituzione che può e deve controllare il territorio, lo deve fare per primo, come fece cento anni fa l’amministrazione socialista municipalista del sindaco di Milano Caldara, come spiega molto bene qui l’articolo di Walter Marossi.
Ci rendiamo conto però che nel momento nel quale faticano anche istituzioni considerate moderne e proiettate verso il futuro - come indubbiamente è la Milano internazionale che abbiamo decantato fino ad oggi - pretendere che la politica centralista, romanocentrica e burocratica che con diverse colorazioni è al governo dalla fine della cosiddetta “prima Repubblica”, sia pronta a recepire il cambiamento di passo e di metodo necessario è un po’ troppo. Qualcosa di meglio, tuttavia, era lecito aspettarsi dal Governo Conte in carica, almeno in termini di innovazione sui provvedimenti politici e amministrativi per l’emergenza.
Un primo intervento concentrato laddove l’emergenza è scoppiata; il successivo sul resto del Paese e la progettazione dell’uscita dalla grave crisi economica e sociale che arriverà in un contesto che già faticava per problemi strutturali : tempi e modi di intervento diversi, da studiare e realizzare nel più breve tempo possibile, coinvolgendo a livelli e modi opportuni tutte le forze di cui si può disporre; questo è quanto avremmo avuto bisogno, con una regia politica coerente.
L’autorità politica, a tutti i livelli, ha invece delegato al mondo scientifico, inevitabilmente inizialmente diviso e con pareri in evoluzione, l’onere della scelta sulle misure di emergenza sanitaria nell’illusione di potersi deresponsabilizzare.
Dopo aver correttamente individuato il focus nelle zone rosse di Codogno e Vò Euganeo - laddove infatti la situazione si è risolta dopo tre settimane di pressione massima - la tentazione di “pensare a tutto e tutti” e la temeraria affermazione “nessuno perderà nulla”, ha portato ad una serie di errori gravi: la mancata dichiarazione di zona rossa in provincia di Bergamo, la dichiarazione di “tutti rossi” e quindi “nessun rosso” estesa all’intero paese, con la conseguente impossibilità ad individuare livelli progressivi di intervento; la nomina tardiva e farraginosa di commissari e soprattutto delle procedure commissariali, con la conseguenza di impiegare tre settimane ad esplicare anacronistiche “gare Consip” nazionali per il materiale sanitario subito indispensabile; la scelta per un decreto d’urgenza che arriva dopo una settimana di tira e molla, in versione sempiterna Milleproroghe, che non dà soldi alla Rai per decenza dell’ultimo minuto, ma in un colpo statalizza Alitalia e Meridiana impegnando 500 preziosissimi milioni di euro nello stesso giorno nel quale la catastrofe del settore aereo declassa la Lufthansa, fino a ieri una delle più solide compagnie al mondo, a portatrice di “junk bonds”.
Intendiamoci, 25 miliardi sul tavolo, di cui 10 miliardi di sostegno al reddito, sono un intervento indispensabile e tutto sommato tempestivo: ma perché dividerlo in decine di tipologie di misure, su molte delle quali la somma destinata è palesemente inadeguata ed irrilevante e per di più frammentata su decine di voci di bilancio, con la grottesca conseguenza di dover introdurre le lotterie telematiche, quando la prima regola delle emergenze è concentrarsi su poche e riconosciute urgenze e con poche e chiare misure?
Sarebbe invece servita la sospensione dell’applicazione di norme - che peraltro andavano cestinate anche in tempi ordinari - nelle zone rosse (che però non ci sono!), la cassa integrazione in deroga per tutti per un mese, qualche miliardo in mano a una gestione commissariale del sistema sanitario, suddivisi tra zona rossa che interviene con procedure da situazione di guerra e zona arancione che si deve preparare all’impatto; il blocco per due mesi di tutte le scadenze fiscali, periodo necessario per individuare con meno approssimazione i settori e la popolazione sulla quale intervenire con la revisione delle imposte, guardandosi dall’inseguire Salvini sulla rovinosa strada del generalizzato non pagamento delle tasse, che darebbe il colpo di grazia al già disastrato bilancio statale provocando la catastrofe di tutti i servizi.
Dopo questo esordio quantomeno zoppicante, i prossimi scalini saranno ancora più alti e difficili da superare, ragione per la quale sarà meglio ponderare bene alcuni indispensabili provvedimenti: una corposa iniezione di denaro alle imprese per evitare che falliscano e si verifichi una crisi dell’offerta cui nessun reddito di cittadinanza al mondo potrebbe rimediare, da farsi con i fondi europei per gli investimenti; una globale riforma della finanza locale, senza la quale il fallimento di tutti i Comuni d’Italia è già scritto (solo al Comune di Milano il lock out costerà almeno 150/200 milioni di minori entrate, che scardineranno un equilibrio già faticosamente raggiunto) ; la totale riforma del sistema di welfare e di sanità sul territorio; il rilancio dell’economia e dell’apparato produttivo nelle aree del Nord; il cambiamento dei modelli sociali ed economici diversi fra le aree italiane che usciranno con differenze ancora più profonde ed insanabili da questa crisi planetaria; la rifondazione dell’Unione europea, unica dimensione possibile di ricostruzione di una identità e comunità in grado di non essere spazzata via dalla faccia della storia.
Pensare di farlo con il fardello delle Leggi Madia, con la giustizia che avrà accumulato un anno secco di ritardo sui suoi ritardi medi pluriennali, con il codice appalti che affida ad una specie di “Precrime” stile Minority Report la gestione impossibile della Pubblica Amministrazione e con il peronismo del reddito di cittadinanza e quota 100, è peggio che un crimine, è un errore.
Il futuro è adesso! E la scelta di nuove strutture istituzionali, di nuovi metodi e soprattutto di nuove responsabilità civili e sociali è già in ritardo perché, nonostante l’oggettiva difficoltà contingente ad andare in direzione ostinata e contraria, la soluzione dei problemi non sta in un rinnovato (?) centralismo.
Nel nostro piccolo, noi ci siamo e ci saremo.
Glocalismo
di Piero Bassetti
(da un'intervista a cura di Giorgio Calderoni e Gianni Saporetti)
La necessità di capire che con la globalizzazione gli stati nazionali perderanno sempre più potere mentre il rapporto fondamentale sarà quello fra le grandi regioni e l’Europa e il mondo; i nodi dell’unità del 1861 che vengono al pettine; il grande nord è una realtà economica, sociale e culturale; le 4 glocal city europee, Londra, Parigi, Berlino e Milano.
Sono passati quasi 50 anni dalla sua esperienza come primo presidente della Regione Lombardia. Che cosa ne pensa, che frutti può aver dato, quali erano le aspettative e qual è la situazione in cui ci si trova oggi?
Beh, io credo che sia cambiato quasi tutto, e questo, tra l’altro, pone un problema anche alla Costituzione. Quello che ha cambiato tutto è stato l’avvento del glocalismo, cioè il fatto che il rapporto del locale con ciò che non è locale, non è più con il nazionale, ma è col globale o, nel caso europeo, col continentale. Quindi, l’idea dei costituenti, che era di fare le regioni sostanzialmente come una soluzione di decentramento dello Stato, ormai irreversibilmente centrale per le scelte del 1861, non ha più molto senso. Forse ha senso amministrativamente, può riguardare l’organizzazione delle prefetture, ma certo non lo ha per quanto riguarda la vera sostanza del decentramento, che è politica, perché riguarda il processo democratico nella direzione che le è naturale, cioè dal basso verso l’alto. È chiaro che oggi il tema dell’articolazione della volontà politica nelle diverse parti del Paese e quindi nelle sue diversità, ai fini di una ricomposizione ad unità nella dimensione nazionale, non è più il tema dominante, in quanto fuori dalla dimensione locale, per il caso della Lombardia, ma più in generale della Padanìa, cioè del grande nord, si guarda alla dimensione che la trascende, verso l’Europa o verso il mondo. Questa novità assoluta sta travolgendo la certezza, consolidata da Westfalia fino a oggi, che lo stato nazionale, e quindi un popolo, si definiva sulla base di confini, cuius regio eius religio, non della sociologia. Gli italiani sono stati creati dal Risorgimento, e da tutto quello che ha fatto seguito, fino al limite di far diventare italiani gli altoatesini a seguito di una guerra, o i valdostani, salvo poi riconoscere a malapena quelle differenze nella Costituzione del Secondo dopoguerra con le regioni a statuto speciale. Oggi però la dimensione della differenza, essenzialmente fra il nord e il sud dell’Italia, è diventata una dimensione talmente penetrante, da spingere a costituirsi in polis sostanzialmente diverse.Quindi anche le differenziazioni regionali possono saltare o diventare fittizie…
Teniamo presente che, in fondo, la tripartizione dell’Italia fra nord, centro e sud, ormai scricchiola, perché l’alta velocità ha reso Firenze nord. Se lei glielo chiede, i fiorentini non si sentono più "del centro”, che era, tra l’altro, una connotazione più che altro politico-ideologica, perché il centro era rosso, e anch’essa oggi è venuta meno. La geopolitica fa di Firenze una città che può gravitare ugualmente su Roma o su Milano, ma che progressivamente sta scegliendo di gravitare su Milano, su Torino o su Bologna. A trenta minuti di distanza è chiaro che i rapporti tra Firenze e Bologna sono cambiati radicalmente. Tutto è cambiato moltissimo.Ovviamente anche l’Europa ha contribuito grandemente al cambiamento…
Certamente. In questo contesto di cambiamenti, che chiamerei ontologici, anche se la parola non si può usare, nel senso proprio dell’essenza della realtà socio-politica, è cambiato anche il quadro istituzionale. Molti dei problemi la cui regolazione era affidata allo stato centrale sono ormai affidati alla dimensione europea. E qui si incontra un altro problema, che è un po’ complicato da spiegare brevemente, ed è che il glocalismo non ha soltanto cambiato la morfologia, la geografia della politica, ma ne ha cambiato anche il funzionamento, l’organizzazione del potere. In un’organizzazione politica costruita sui limiti territoriali, il confine era il punto ad quem per il potere del principe. Oggi non è più così, perché, mentre il controllo del territorio è andato spostandosi, com’era fatale, verso i poteri locali, il controllo delle grandi funzioni, che sono quelle che innervano la vita politica ed economica, si è spostato, in molti casi, a livello globale. Basta pensare al trasferimento delle attività produttive, alla logica dei costi comparati, che ormai è quella globale. Detto tra parentesi: da questo punto di vista il fatto che l’Europa sia nata come potere funzionale, come Comunità del carbone e dell’acciaio e poi si sia organizzata intorno a poteri funzionali, l’agricoltura, può diventare un vantaggio. Ma pensiamo alla finanza: attraversa tutta la geografia del mondo. E qui il caso che ci riguarda più da vicino è l’unità monetaria: avere un’unità monetaria che segua logiche non territoriali, ma globali ed europee (pensiamo anche solo ai tassi in finanza) fa sì che il divario fra quello che succede nei territori e quello che succede nelle funzioni, appare molto più rilevante. Basta che in un punto qualunque del mondo e quindi anche dell’Europa o dell’Italia, i costi comparati delle unità produttive non collimino più con la capacità attrattiva del territorio, che l’impianto si sposta. Lo stesso vale per i capitali che ormai viaggiano con una rapidità estrema. Ma questo vale anche per il controllo del territorio: basta pensare a Schengen e all’emigrazione, la gente sbarca a Lampedusa per andare a Bruxelles. Quindi il fatto che il governo delle funzioni principali, a cominciare dalla finanza, dalla moneta, dall’energia, dall’ecologia, tutta la dimensione ambientale, sia ormai fuori dal controllo della dimensione nazionale, è la causa della crisi vera degli stati-nazione.Quindi una crisi epocale, irrimediabile?
Beh, in un certo senso sì e non è cantando l’Inno alla prima della Scala che si tiene viva l’unità nazionale. Certo, si tiene viva quella simbolica, ed è del tutto naturale che, nel momento in cui si disarticola l’unità reale, tutti sostanzino quella simbolica; così la nazionale di football diventa importante e l’inno bisogna impararlo a memoria, cosa che nessuno di noi aveva mai fatto. Io credo di essere stato un buon italiano anche senza sapere l’inno. Ho fatto la naja volentieri. Ma anche lì, perfino nella naja lo vediamo: adesso uno in artiglieria si trova con gli inglesi, se è nei carri armati si trova coi tedeschi, l’aviazione è un’aviazione Nato, gli aerei sono gli stessi per tutti… Ora, tutto questo fa sì che non solo la vecchia logica non sia più dirimente dei nostri problemi di vita e di vita politica, ma che la nuova logica ci metta di fronte a nuovi problemi molto complessi. Prendiamo, appunto, il problema italiano delle differenze fra nord e sud: mentre prima potevano essere mediate nel controllo monetario, variando la media con la differenza dei cambi, oggi questo non funziona più. E direi che questo è un problema, o il problema, per tutta l’Europa. Perché si è parlato tanto della Grecia? Perché la produttività di tutto il sud d’Europa è simile a quella della Grecia. Ecco, la produttività dell’Emilia o della Lombardia, invece, è più vicina a quella della Baviera. Allora, se io posso fare la media fra le due e dividermi dal resto del mondo, è chiaro che posso difendere l’unità nazionale facendo la Cassa del mezzogiorno. Ma se devo rincorrere la parità con Helsinki o con la Svezia, o con la Baviera, è chiaro che il giochino rischia di essere impossibile. Infatti sono assolutamente convinto che con l’attuale trend di divaricazione della produttività totale del sud dell’Europa dal nord dell’Europa, l’unità monetaria, rigida com’è adesso, ha poche probabilità di sopravvivere. Io l’ho detto, fin dall’inizio della "questione greca”: tu, un greco non lo fai diventar tedesco neanche se lo bastoni per dieci anni, un greco è un greco, un tedesco è un tedesco. Per rendere il greco simile al tedesco, tu ci metti cinquant’anni, come minimo, e ovviamente solo nel settore produttivo, per avere, cioè, dei livelli di produttività vicini, lasciamo perdere la tradizione culturale dove non ce la farai mai. Del resto basta riflettere sul caso italiano: la prima repubblica non è riuscita ad avvicinare il sud al nord. C’è stato solo un momento, forse negli anni Settanta, in cui sembrava che il sud Italia avesse un trend di sviluppo più elevato di quello del nord e quindi avesse la possibilità di avvicinarsi, ma oggi la tendenza è decisamente quella di un aumento della divaricazione. E questi sono fenomeni che non hanno tempi veloci come quelli della finanza. Ricomporre l’unità dei livelli produttivi in un Paese come l’Italia non si può fare in tre anni, se non su qualche funzione. Ma, anche lì, è difficile: basta pensare all’Ilva, per capire che per tenerla competitiva con l’acciaio del mondo, ci sono problemi difficilissimi da dirimere in termini nazionali e difatti nessuno ha posto il problema. Nessuno ha posto il problema del costruire un’economia dell’acciaio nazionale per tenere dentro l’Ilva, per fare un esempio... Allora, lei mi diceva: cos’è cambiato? Io non voglio dire "tutto”, perché non è vero, ma certamente moltissimo. Certamente il glocalismo, processo a mio avviso irreversibile, ha cambiato molti aspetti basilari dell’assetto politico-istituzionale che portò alla costruzione delle unità nazionali.Quindi? Ognuno per la sua strada?
La questione fondamentale, di solito trascurata, è come cambia il locale quando noi dobbiamo rapportarci col globale. La spinta ad accentuare le diversità, per fare della loro presa d’atto la condizione per stare insieme, diventa fortissima. Se non è più possibile fare la media, io devo organizzare il gioco piuttosto sulla complementarietà, cioè a dire che allora il sud faccia bene il sud e il nord faccia bene il nord per trovare poi, nella relazione fra i due, una maggior forza. Quindi non più relazioni che servano all’unificazione, a un’omogeneizzazione impossibile, ma una complementarietà nella differenziazione: relazioni, cioè, fra soggetti diversi che siano però centripete e non centrifughe, cioè che spingano a stare insieme in un interesse reciproco. D’altra parte in Europa può succedere lo stesso: una spinta delle grandi regioni, prima di andare nel mondo, a rafforzarsi in una dimensione continentale. Quello che sta avvenendo, e che fatalmente avverrà in Europa, è una riorganizzazione della società politica europea con un ritorno alle aggregazioni delle diversità, la loro ricomposizione in un quadro istituzionale moderno, facendo spazio all’organizzazione funzionale. Quindi il problema della democrazia e della rappresentanza, beh, cambierà notevolmente. Ecco allora il duplice problema: ritrovare la dimensione giusta per essere una comunità politica, una polis e trovare il modo giusto per essere nel mondo. Questa è la sfida del glocalismo.Un’Europa delle regioni…
Il mondo del futuro non sarà un mondo di stati-nazione, ma di città, di glocal city. Più del 50% dei sette miliardi di abitanti del mondo sarà inurbato. Di questo in Italia non se ne parla, ma l’UE ha già prefigurato l’Europa come una rete di una quindicina di grandi aree metropolitane, fra di loro, fra l’altro, in gerarchia, con quattro grandi glocal city che sono Londra, Parigi, Berlino e Milano, dove a Milano, è affidato, come da Diocleziano in poi del resto, il rapporto tra l’Europa e il Mediterraneo. Di fronte ad una tale sfida, dobbiamo cominciare a ragionare su cosa saranno Torino, Milano, Venezia, Bologna. Avete visto la fotografia dell’Italia dal cielo pubblicata in questi giorni? Beh, le zone di illuminazione arrivano fino a Pesaro. Io ricordo che per la Bassetti, il deposito di Bologna arrivava fino a Pesaro come area commerciale… Ecco, quel colpo di luci lì, da Torino a Pesaro, chiamiamolo nord Italia,chiamiamolo Padanìa - che è discutibile perché dentro c’è anche l’Adige - chiamiamolo Longobardia o Gallia Cisalpina o, come fa l’Europa, Euro-Med (euro mediterranea), dimostra che noi saremo cittadini della stessa glocal city. Sembra una sfida, ma è già lì! Da Bologna a Milano in treno ci metto un’ora, quarantaquattro minuti con Italo da Milano a Torino: sono i tempi dell’M1, la linea uno del metrò milanese. Questo per dire che cosa? Che bisogna interrogarsi su cos’è la Lombardia, cos’è l’Emilia, perché le caratteristiche della glocal city sono di natura sociologica, socio-economica, anche culturali, ma sono già anche istituzionali. In Globus et Locus abbiamo fatto un’indagine sulla logistica di Milano e abbiamo scoperto che la logistica di Milano ha due punti di concentrazione: uno a Piacenza e uno a Novara. Piacenza è in Emilia, Novara è in Piemonte. Allora, se uno deve fare una politica logistica, è chiaro che il presidente della Regione Lombardia in quanto tale può solo farla a metà, perché l’IT Transit, che sbocca a Genova, senza la Liguria che cosa fa? La tangenziale est-ovest senza il Piemonte e il Veneto cosa fa? Milano-Roma, senza Bologna cosa fa? Ma basterebbe prendere la mobilità delle persone. Se il mio discorso è vero, in termini di analisi dei fatti, è ancor più vero in termini di analisi del pensiero: la milanesità, piuttosto che l’italianità, sono radicalmente cambiate. Ai miei tempi era chiarissimo cos’era la lingua e cos’era il dialetto, oggi non è più così. Nel mondo abbiamo in giro un sacco di gente che sa il dialetto piemontese e lo spagnolo di Buenos Aires. Il rapporto tra la lingua e quello che noi chiamavano il dialetto non è più quello gerarchico; i dialetti, certe volte, diventano la difesa di specificità, ma rispetto all’inglese. La cultura dei miei nipoti è regolata dal web. Oggi sul Corriere c’era la notizia che i ragazzini chiedono l’iPad alla mamma a nove anni. Questi non sono mica fatti determinati dal Ministero della Pubblica Istruzione, ma direttamente da Palo Alto o dalla California. Qui si vede, anche se per ragioni abbastanza comprensibili, quanto sia vecchio l’attuale dibattito politico nostrano...Infatti. Lei faceva riferimento al livello istituzionale, ma se pensiamo a cosa sono stati capaci di fare i nostri governi viene in mente solo la riforma del titolo V, del 2001, che è totalmente di retroguardia, fuori dal tempo e ha portato danni...
In fondo tutti i guai del nostro Risorgimento si sono inverati nel 1861 con le leggi centraliste. Io ho qui uno studio di un’economista francese che si chiama Stéphanie, molto ben fatto, su cosa ci sia di più simile all’unificazione monetaria dell’euro nella storia europea. La cosa più simile è stata l’unificazione della lira italiana, nel 1862-63. Bene, nel 1862, ad avere, diciamo, lo spread più basso, era il Regno delle due Sicilie, che pagava il 2-3% di interessi sui bond, sui buoni, mentre il Piemonte pagava il 9% e la Lombardia pagava l’11%. Cioè a dire esattamente il contrario di quel che succede adesso. In realtà bisognerà pure riconoscerlo: l’unificazione, che dal punto di vista sociologico e culturale, è stata certamente un successo irreversibile, dal punto di vista istituzionale è stato proprio un errore, tanto è vero che, 150 anni dopo, tutti i nodi stanno venendo al pettine. Allora, che una persona colta, formata sui problemi più globali al mondo -e più globale della finanza c’è solo l’ecologia!- se ne venga fuori, di fatto, con soluzioni che ripetono tutti gli errori del centralismo, è significativo di una crisi culturale che attanaglia il potere e quindi coinvolge l’essenza della democrazia. Perché la democrazia cos’è? È il popolo che esercita il potere, e si può avere una situazione in cui c’è il potere e il popolo non lo sa esercitare, ma c’è una situazione, invece, in cui è il potere a non essere esercitabile. E noi siamo in questa seconda situazione di stallo. Questa dispersione nella volontà politica deriva dal fatto che esercitare il potere con una baracca così sgangherata com’è quella degli stati nazionali, nessuno è in grado di avanzare delle proposte "viabili”. Se ho una macchina che funziona, posso mettermi a discutere se andiamo a Bari o a Milano, ma se ho una carretta che non funziona, discutere su dove andare non ha più alcun interesse. Voglio dire che in una situazione simile, sia la sinistra che la destra, una volta al governo, non possono che fare errori, anche gravi. Lo si vede sull’Imu: come fai a spiegare alla gente che l’Imu è l’unica tassa che tu puoi applicare? Questo forse poteva essere vero nel 1850, ma oggi non è pensabile che tu non abbia un fisco che ti consenta di discriminare tra i ricchi e i poveri, se vuoi farlo. I governi, da un po’ di tempo, non fanno che dichiarare i loro non possumus: si può andare avanti a dire ”certo, questa è una roba disastrosa, vi chiediamo perdono, però non siamo capaci di fare diversamente”? La realtà è che la crisi è nello Stato, è nell’organizzazione della crazia, del potere, dopodiché il modo come questo si rapporta alla volontà popolare diventa un happening. Va al potere Berlusconi e succede tutto il contrario di quello che avrebbe dovuto succedere, andrà al potere il buon Bersani e verrà fatta una sana politica di destra, l’unica che riuscirà a fare. Ecco la vera crisi dei partiti. In questa situazione prendersi la responsabilità di dire: "Noi interpretiamo la volontà popolare, la organizziamo e la trasformiamo in politica”, diventa obiettivamente difficile. Allora, certo, viene fuori la casta, perché se la politica ha perso la sua funzione e io devo selezionare della gente inutile, è chiaro che la selezione della classe dirigente si distorce e l’unica motivazione diventa lo stipendio. Da che mondo è mondo, la gente è motivata dalla funzione.Dunque?
Bisogna riorganizzare la polis locale, prendendo atto dei cambiamenti. Poi, in secondo luogo, bisogna cambiare radicalmente quella che una volta si chiamava politica "estera”, che deve essere politica "glocal”, cioè di come tu gestisci il rapporto con la dimensione del globale. Un "globale” che non è più "estero”. La politica nel Mediterraneo, oggi, la fa più l’Eni del Ministro degli Esteri - per la verità questo era già vero al tempo di Mattei. Ma lo stesso vale con Bruxelles. La diplomazia di confine non ha più senso, Draghi certe volte sembra il nostro Ministro degli Esteri a Bruxelles. Ma a cosa servono ventisette ambasciate in Europa? I tre quarti dei fondi della Farnesina sono spesi in Europa quando dovrebbero essere spesi fuori dall’Europa perché la politica estera in Europa la dovrebbe fare, e in parte la fa, Bruxelles, quella che conta s’intende. Quindi, non solo riorganizzare la politica che una volta si sarebbe chiamata "interna”, che io chiamo "politica locale”, ma anche organizzare il rapporto tra la politica locale e la politica globale. Allora la sfida sarà: come verranno organizzate le grandi regioni e la glocal city del paese che non potrà non essere Milano? È un tema anche molto concreto. Adesso ci sono tre miliardi di euro per le smart city che si possono distribuire. Allora tu cosa fai? Fai l’onda verde, realizzi la razionalizzazione dei semafori o dell’energia? (E già tutte le industrie produttrici dei sensori sono mobilitate a catturare gli assessori). È questo la città intelligente? Ho partecipato a un convegno proprio a Bologna sul problema delle smart cities e nel mio intervento ho detto: attenzione, ché smart può voler dire due cose; che i semafori sono intelligenti, i lampioni si spengono quando vien chiaro, le aiuole si bagnano quando è secco e non si bagnano quando è umido, che come a Santander i bidoni della spazzatura, quando sono pieni a due terzi, segnalano all’azienda municipalizzata che bisogna andar lì a cambiarli, che se tu vuoi andare in piazza del Duomo e sei inguaiato, ti dicono ‘vai da via Monforte’… Ma questa è solo la smartness dell’intelligenza operativa. Ma la vera smartness di una città è sapere qual è la sua vocazione. Allora, per esempio, per Milano, vogliamo andare a integrarci con Monaco o vogliamo invece rimanere Midland che fa il ponte fra Monaco e Tripoli? Questa è la sfida di Milano: essere un’appendice dell’Europa o la cerniera tra l’Europa del nord e l’Europa del sud? Questo non vale solo per Milano, vale per tutto il Nord-Italia. E il sud farebbe bene a capire che lo stesso è per lui. È la mediazione col nord, ma non via Milano, magari via Barcellona, via Costantinopoli, eccetera. È questa la sua vocazione oggi, come per la verità è stata ieri. Cioè la vocazione delle parti del Paese, che sono sostanzialmente due, va tutta ripensata. Cioè, il modo del sud di andare in Europa non può essere lo stesso di Milano, non è fare l’acciaio a Taranto invece che a Brescia. È, per esempio, capire le prospettive che possono avere il turismo, la cultura, eccetera, e monetizzarle. E allora, probabilmente, se si battono strade diverse, ci si potrebbe trovare addirittura superati dal sud rispetto alle difficoltà di un adeguamento del nord. Sono abbastanza vecchio per ricordare che quando negli anni Cinquanta si andava a Napoli o a Palermo era presentissima la cultura inglese. Per esempio le boiseries, l’attrezzatura degli uffici, gli sbocchi commerciali, era tutto di imprint inglese o olandese. Perché Napoli in Europa ci andava via mare e anche in politica non ci andava via Roma. Ma che Napoli debba andare in Europa solo via Milano non ha senso, sono due grandi aree urbane d’Europa che cercano due diverse soluzioni urbane per continuare ad essere europee.Ma lo Stato che fine fa?
Secondo me, lo stato centrale, nel prepararsi a sfumare, dovrebbe accompagnare questa trasformazione, perché non è scontato che possa avere altre soluzioni. È chiaro allora che se lo stato nazionale, invece di comprimere i cammini specifici delle parti del Paese, cavalcasse la loro sintesi e fosse in grado di proporre a Bruxelles, in modo corretto, la presenza in Europa del nord come del sud, beh, allora sì che lo stato nazionale, in un certo senso, si dissolverebbe facendo il suo mestiere fino in fondo. Pensate soltanto alla possibilità di negoziare per conto delle grandi regioni. È chiaro che se due grandi regioni d’Europa, come il nord e il sud d’Italia, negoziano insieme, sono più forti. Quindi anche tutta la nostra politica europea bisognerebbe, in qualche modo, ripensarla. Certo, capisco bene che tutto il mio discorso può sembrare "visionario”, ma spero che lo sia nel significato inglese, che a differenza che in italiano non è un insulto. Tra l’altro è la stessa visione di una parte della sociologia più moderna, ad esempio della Sassen, che vede l’Europa come una rete di grandi glocal city e quindi più vicina alle città anseatiche o all’organizzazione comunale nel nostro Rinascimento, che non all’esperienza degli stati nazionali. Poi uno potrebbe dire: "Vabbé, cosa facciamo domani?”. Io penso però che se uno ha chiaro cosa vuol fare dopodomani, diventa più facile decidere cosa si fa domani...