DRAGHI E GLI ANZIANI.
Piccole postille su un discorso, peraltro, sicuramente memorabile.
di Stefano Rolando*
Nel rispetto e nell'ammirazione per la svolta impressa da Mario Draghi, voglio tuttavia fare una breve annotazione su un punto (o, ancora meglio, una mancanza) per la quale non sono riuscito a trovare una adeguata spiegazione.
Nel rispetto per un bel discorso programmatico, in cui il progetto “repubblicano” si regge su una idea di Paese attorno al quale lo sguardo è alle riforme da non rimandare (ispirazione cavouriana) e al senso di marcia impresso da un soggetto (l’Europa) che guarda prioritariamente a “consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti”, ebbene inspiegabilmente non c’è nemmeno un accenno ad un terzo di quel Paese oggi, gli anziani di almeno due generazioni.
Attaccati dal virus, sbrigativamente consegnati da famiglie indebolite alle case di riposo (qui tuttavia con un cenno prezioso a “la casa come principale luogo di cura”); non concepiti (almeno per quella metà utile e valida) ad un’idea di lavoro progressivo; stereotipati - nell’idea corrente validata da un certo giovanilismo coltivato anche dalla politica dell'ultimo trentennio - come “sgualciti”.
È certamente una dimenticanza non voluta, forse effetto della tensione tutta politica del discorso. Ma comunque non è sfuggita a quanti ancora hanno in mente il ritratto di Spencer Tracy e Katharine Hepburn. E a coloro che pensano ancora agli ottantenni come preziosa risorsa (oltre che memoria insostituibile) della nostra società.
Ovvero che si tengono ancora cara l’elezione (in tempi durissimi) dell’ottantaduenne Sandro Pertini alla massima responsabilità repubblicana.
Ciò detto, l'attacco alla sterilità della solitudine della cultura sovranista resterà, in questo discorso, memorabile.