di Francesco Tresso
Duemila sindaci si schierano con Appendino, sostenendo che la possibilità di incorrere in azioni penali per responsabilità non proprie, rischia di tenere lontani dalla politica tanti cittadini competenti e di buona volontà. Questo tema, che la cultura dell’anticasta aveva sempre banalizzato, è da tempo al centro delle riflessioni di amministratori di ogni schieramento politico, che silenziosamente si fanno carico della propria responsabilità. È anche di questo che si parla quando si discute dei famosi “costi della politica”, che la demagogia grillina ha sempre bollato come balzelli immorali.
Giusto chiedere che il legislatore affronti con equilibrio il tema della tutela degli amministratori pubblici, non si può accettare che una città come Torino sia stata messa in ginocchio da un banda di giovanissimi disperati. Così come non si può accettare che l’unica alternativa al pericolo siano regole che penalizzano gli operatori culturali e dello spettacolo: ovvero chi non ha i mezzi per rispettare le misure di sicurezza introdotte dopo i fatti del giugno 2017.
Allo stesso tempo, non è possibile accettare che una città capace di organizzare i Giochi Olimpici consideri le manifestazioni di piazza soggette a rischi “incalcolabili”, solo perché la sua amministrazione è incapace di dotarsi di una catena di comando efficiente e composta da figure professionalmente adeguate.
Nella mia vita professionale ho redatto oltre un centinaio di Piani di emergenza per amministrazioni comunali e provinciali, conosco il significato della prevenzione. Purtroppo, in questi anni il Comune di Torino ha progressivamente dissipato una importante eredità olimpica: il patrimonio di competenze maturato negli anni che precedettero i Giochi, che riguardarono l’organizzazione di eventi di grande complessità: gestione dei flussi di pubblico, dei trasporti, della sicurezza. Tra il 2002 e il 2006 tutti i soggetti coinvolti nell’organizzazione olimpica – pubblici o privati che fossero – parteciparono a sessioni formative e di simulazione di scenari di crisi anche catastrofici. Vennero predisposti piani per la messa in sicurezza di decine di impianti, sportivi e non, con un rigore (che definirei sabaudo) imposto dal CIO in primis, ma anche dalle forze dell’ordine e dai grandi sponsor internazionali (sempre per la mia professione, sono stato progettista di un impianto olimpico, quello dello sci di fondo).
Non ci furono incidenti non perché la fiamma olimpica rende tutti più buoni, ma perché il territorio, nel suo complesso, si preparò con cura a ospitare quel grande evento internazionale.
Quello che oggi non si dice, e che invece bisogna avere il coraggio di ricordare, è che sono ben poche le tragedie «inimmaginabili» e che prepararsi al peggio (pur non azzerando i rischi) è un obbligo degli amministratori pubblici. Chi avrà l’onore di succedere a Chiara Appendino dovrà avere ben chiaro l’importanza di sostituire il dilettantismo con le competenze (il Comune ha in questo senso degli ottimi professionisti), non spaventandosi della "gestione dei rischi" ma proponendo strumenti organizzativi efficaci per gestire gli eventi.