Di Laura Specchio
Il dibattito sul lavoro da remoto è acceso ormai da oltre vent’anni; il tema è quindi entrato da lungo tempo a far parte di quanto ordinariamente discusso nel più ampio ambito dell’organizzazione del lavoro.
A seguito della situazione emergenziale scaturita dal Covid-19, il ricorso al cosiddetto “Smart working” si è però rivelato (laddove è stato possibile farvi ricorso) uno strumento indispensabile, non solo per garantire la sicurezza dei lavoratori, ma anche per garantire la continuità di molte attività lavorative.
Occorre, senza dubbio, sottolineare che non sempre le attività svolte da casa, sia durante i periodi di restrizione, sia ancora oggi nella fase successiva, si sono configurate come “lavoro agile”, ma hanno presentato caratteristiche sensibilmente diverse, talvolta assimilabili al classico “telelavoro”.
Al momento siamo però entrati una fase diversa, una fase che ci obbliga ad una riflessione profonda riguardo al modo in cui “riprogettare” il lavoro.
E ciò non solo per far fronte a possibili nuovi momenti di emergenza, ma anche per affrontare un periodo di crisi e difficoltà che si è già manifestato in tutta la sua drammaticità e che, purtroppo, promette di accompagnarci per diverso tempo.
L’approccio da adottare a fronte dell’imprevedibilità e dell’incertezza che ci attende dovrebbe probabilmente essere improntato alla massima flessibilità, facendo ricorso alle nostre capacità di adattamento: appare purtroppo vero il detto che “nulla sarà più come prima”
Il dibattito relativo allo “Smart working” ha, tuttavia, sempre diviso e ancora oggi sta dividendo.
Sul tema si annoverano, infatti, sostenitori e oppositori: accanto a chi ha messo in evidenza elementi positivi (quali ad es.: la riduzione degli spostamenti e dei relativi tempi; la diminuzione delle emissioni inquinanti da traffico automobilistico; la possibilità di conciliare meglio i tempi di vita e di lavoro; la possibilità di lavorare per obiettivi; ecc.) vi è chi ha evidenziato problematicità diffuse (come ad es.: lo svolgimento dell’attività in ambienti ristretti e difficili da condividere in ambito familiare; una rete di collegamento internet non efficiente; uno stringente controllo dei risultati ottenuti tanto da far ipotizzare per alcune delle attività svolte un revirement del “lavoro a cottimo”; la sopravvenuta mancanza degli aspetti di socialità e di collaborazione che nascono e si sviluppano con maggiore facilità e spontaneità lavorando “in presenza”; la difficoltà a trovare da soli motivazioni o soluzioni alle eventuali problematiche lavorative; la chiusura di molte attività commerciali che ruotano inevitabilmente intorno alla presenza fisica dei lavoratori).
Si sollevano quindi questioni di cruciale importanza che meritano di essere approfondite per ricercare una possibile sintesi.
Nella situazione attuale è invero difficile pensare di poter “tornare indietro”.
L’innovazione tecnologica e la digitalizzazione, sotto la spinta della pandemia, hanno imposto un’accelerazione senza precedenti nei processi di trasformazione del mondo del lavoro.
Processi che erano già in atto, ma che ora dovranno essere necessariamente e rapidamente governati per non essere subiti passivamente, determinando possibili nocivi effetti collaterali sulla vita delle persone.
Un possibile punto di partenza è forse quello di considerare l’esperienza del “lockdown” come una sorta di “grande esperimento” che ha creato l’opportunità di ridisegnare il lavoro delle persone.
La direzione auspicabile appare quella di una maggiore professionalizzazione per tutti quanti e di un minore controllo gerarchico.
Occorrerebbe quindi fare un grande balzo in avanti, in quanto siamo ancora lontani da quest’ultima ipotesi: come si pensa di lavorare concretamente “per risultati” quando nella maggior parte dei casi le mansioni svolte non sono mai state vincolate agli stessi?
In una domanda: come si fa a trasformare le “mansioni” in veri e propri “ruoli”, ove ogni singolo lavoratore possa esprimere ciò che riesce a fare in termini di risultato (e non di cottimo) e di dominio dei processi, di rapporto con gli altri e nel perimetro di un arricchimento di competenze?
Avviare percorsi di maggiore professionalizzazione, anche attraverso percorsi formativi mirati, sembra quindi necessario, ma non sufficiente: la professionalità stessa è senz’altro un obiettivo, ma è evidente che occorra “mettere mano” ai contesti organizzativi tradizionali con un conseguente salto di paradigma.
È possibile pensare di abbandonare almeno in parte il pattern “tempo vs. retribuzione” per affiancare nuovi schemi in cui vi sia spazio, ad es., per la progettazione ed il raggiungimento di obiettivi?
È possibile rivedere gli attuali riferimenti culturali (che in parte sembrano ancora risentire di una mentalità che ha fatto la sua storia nel taylorismo e nel fordismo), proiettandoli verso nuovi costituendi modelli?
È ovvio che una risposta univoca non è possibile in quanto occorrerà prestare attenzione alle differenze tra le diverse tipologie di attività lavorativa, ma si ritiene che una risposta possa essere trovata, adattandola a numerosi contesti.
Gli esempi da cui trarre qualche spunto di riflessione sono molti.
Dall’attività giudiziaria, che ha visto implementare il ricorso al cd. “Processo Telematico” e alla trattazione scritta o da remoto delle udienze e che soprattutto nel settore civile potrebbe mantenere tale impostazione, all’attività della Pubblica Amministrazione, che grazie all’implementazione dei servizi digitali ha consentito ai cittadini di accedere a servizi, ottenere certificazioni, presentare istanze e domande, sgravando la Pubblica Amministrazione stessa da numerosi incombenti “in presenza” e consentendo ai Funzionari di evadere da remoto le pratiche d’ufficio.
Passando al tema sanitario, di fronte al collasso dei sistemi organizzativi della sanità pubblica, ciò che ha tenuto sembra poi stato il sistema professionale: competenze, collaborazione, senso della missione, ecc.
Abbiamo “scoperto” che c’è un grande spazio per la remotizzazione di molte funzioni.
Spazio che va utilizzato e riempito: dalla diagnostica, alla consulenza (ambito che potrebbe essere potenziato, ottenendo una possibile diminuzione delle tariffe); del resto l’assistenza sanitaria pre-ospedaliera si è spesso rivelata carente di elementi di digitalizzazione.
In questa drammatica fase un’attenta osservazione dei fenomeni che ci stanno attraversando è quindi quanto mai necessaria.
Ad esempio, il settore delle consegne a domicilio, in larga parte gestibili attraverso piattaforme informatiche, ha assunto un ruolo significativo da un punto di vista socio-economico, di fondamentale importanza per le persone che si trovavano in difficoltà; il picco di commercio on-line, ha, tuttavia, avuto (e continua ad avere) un non trascurabile effetto negativo per le attività commerciali tradizionali, la cui sopravvivenza è vincolata ad una sede fisica.
Il mondo della scuola si è scoperto carente di competenze digitali e di strumenti per garantire parità di trattamento a tutti; il terremoto creatosi nel tradizionale sistema di insegnamento e di socializzazione tra gli studenti deve placarsi per trovare un coordinamento con le esigenze di tutela della salute.
Vi sarebbero moltissimi altri ambiti di discussione (ad es. il settore turistico, quello fieristico, quello degli eventi, particolarmente rilevanti in una città come Milano), ognuno meritevole di singolo e particolare approfondimento e di apposita trattazione.
In sintesi, tuttavia, si può affermare che esistono numerosi “spazi da riempire”, valutando le opportunità e le dimensioni degli interventi, e che occorre riempirli adesso.
Lo “Smart working” ha dimostrato di rivestire utilità e potenzialità, ma occorre calibrare attentamente modi e contenuti di utilizzo.
Ad ogni livello ciascuno dovrà fare la sua parte: dai livelli territoriali, con le relative specificità, sino ai contesti nazionali, che a loro volta dovranno relazionarsi con quelli internazionali.
Nella gravissima crisi che ci ha investito, in cui il rischio di chiusura di molte attività e di perdita di moltissimi posti di lavoro è evidente, occorre ritrovare degli spazi di progettazione e di co-progettazione di nuove forme di attività e lavoro.
La base di partenza può tranquillamente essere quella territoriale.
Occorre, tuttavia, agire presto; agire ora; perché se alcuni mesi fa l’impatto improvviso della pandemia non ha consentito una adeguata elaborazione dei processi, l’esperienza vissuta e i cambiamenti giocoforza introdotti nel sistema possono e devono guidarci ora alla ricerca di soluzioni che contemperino le criticità emerse e ci consentano di progettare un futuro in termini di migliore qualità di vita e di lavoro.
Laura Specchio è:
-Consigliera Comunale esponente del Gruppo Alleanza Civica per Milano
- Presidente Commissione Politiche per il Lavoro, Sviluppo Economico, Attività Produttive, Commercio, Risorse Umane, Moda e Design